Diritto di Critica del Lavoratore

Nella valutazione della legittimità dell’esercizio del diritto di critica del lavoratore bisogna tener conto: del doveroso contemperamento degli interessi contrapposti di entrambe le parti, ricordando che si tratta di bilanciamento di interessi protetti entrambi a livello costituzionale.

Infatti, se è vero che il diritto di critica è espressione del generale diritto, riconosciuto dall’art. 21 Cost., di manifestare il proprio pensiero con qualsiasi mezzo, è altresì vero che il diritto in questione assume caratteristiche peculiari, in virtù degli obblighi di subordinazione, collaborazione e fedeltà che gravano sul prestatore. Tali obblighi, per un verso, gli consentono di “ingerirsi nelle modalità di esercizio dell’attività dell’imprenditore sotto il profilo dell’incidenza che questa ha sulle condizioni di vita e di lavoro dei dipendenti”, ma, per l’altro, accentuano “il dovere di chiunque di astenersi, in assenza di adeguate ragioni, dalla diffusione di notizie e di giudizi pregiudizievoli per l’impresa”.

La critica non può essere diffamatoria. “La possibilità dell’esercizio nella sua pienezza del diritto di critica e di azione sindacale, teso alla tutela delle condizioni di lavoro, non può essere incondizionato non potendo arrivare al punto da contenere affermazioni diffamatorie che in quanto tali possono risultare lesive dell’immagine datoriale”.

I principi sono stati affermati dalla Corte di Appello di Napoli, 8 febbraio 2013, n. 294/13, che ha ribadito, in linea con la giurisprudenza maggioritaria (v. da ultimo, Cass. n. 7471/2012), l’esistenza di limiti di forma e sostanza alla manifestazione del pensiero da parte dei dipendenti, qualora la stessa sia suscettibile di ledere il decoro aziendale.

La tutela della persona. In particolare, la Corte ha affermato che il diritto di critica, anche aspra, del lavoratore, pur se rappresentante sindacale, benché garantito dagli artt. 21 e 39 Cost., “incontra i limiti della correttezza formale imposti dall’esigenza, anch’essa costituzionalmente garantita (art. 2 Cost.), di tutela della persona umana”. Ne consegue che, dove tali limiti siano superati con l’attribuzione all’impresa datoriale o a suoi dirigenti di qualità apertamente disonorevoli e di riferimenti denigratori non provati, il comportamento del lavoratore può essere legittimamente sanzionato in via disciplinare, per esempio con una lettera di richiamo disciplinare.
La specificità dei fatti. Da un punto di vista formale delle modalità di esercizio del diritto di critica, la stessa può essere “coperta” dalla garanzia costituzionale di cui all’art. 21 Cost. e dall’art. 1 Stat. lav., solo se “la correlata specificità e determinatezza dei fatti denunciati consente al denunciante di poter provare di aver denunziato fatti veri”.

Nella fattispecie, il lavoratore era stato licenziato per giusta causa in quanto la società aveva ritenuto grave la condotta tenuta, consistente nell’invio alla Procura della Repubblica, alla Provincia, alla Camera di Commercio ed alla Mostra d’Oltremare, di una missiva, ritenuta lesiva dell’immagine della società datrice di lavoro, che riportava fatti e circostanze non rispondenti al vero. Dal canto suo, il lavoratore aveva impugnato il licenziamento sul presupposto che la missiva in questione non era lesiva ed era fondata sul diritto di critica riconosciuto al dipendente che espletava attività sindacale. I giudici, dall’esame della missiva, hanno ritenuto che le “accuse recapitate a numerosi e qualificati destinatari e prospettate come fatti di indubbia rilevanza penale (abuso, malversazione di denaro pubblico, gestione clientelare del personale e delle assunzioni, mancata realizzazione dell’interesse pubblico e perseguimento di interessi privati)” erano diffamatorie e caratterizzate da “assenza di indicazioni di dettaglio e di riferimenti a fatti specifici ed accertabili” e che, pertanto, non era possibile verificare se si trattava di accuse veritiere. Conseguentemente, il provvedimento disciplinare adottato doveva ritenersi adeguato.